Vitamina

27 novembre 2006

Una patina ti avvolge il cuore e il cervello o forse qualcos’altro, forse non sai neanche con precisione quale parte del tuo corpo è vittima di quest’attacco. Però sai che il cervello ne risente e ti lascia sputare fuori parole che non riesci a ponderare e ti mortifichi perché lo vorresti, sai anche che il cuore ne risente perché i suoi battiti sono sempre più irregolari e se non sapessi che non è possibile penseresti che qualche volta si è anche fermato per rifiatare.
Senti che la tua vita ti sta passando davanti come un film che non vuoi vedere, come il film sbagliato, come una serie di trailer in attesa del capolavoro che stai aspettando. E non ti piace questa sensazione, te la prendi con te stesso per l’attesa di questo capolavoro quando tutto quello che volevi qualche tempo fa era solo gustarti qualche semplice commedia. Ma forse non sei mai stato portato per il genere e per quanto possa sforzarti il palato non lo cambi.
Fumi una sigaretta dopo l’altra come se ogni tiro portasse con se anche la lancetta dei secondi per spingerla a camminare più velocemente, ma non funziona così, l’unica cosa che va via è la voce coperta sempre più da colpi di tosse che scuotono con violenza.
Hai provato anche a bere, sempre per costringere il tempo a dimenticarsi di te, a scorrere indipendentemente dalla tua attesa senza tempo. Tutto quello che hai ottenuto è stato un alito di carogna che non ha fatto altro che rendere più patetiche le tue richieste di aiuto.
E’ che non riesci a toglierti dalla testa un sogno, anzi non vuoi togliertelo dalla testa. Lo riproduci in continuazione nei tuoi occhi e tremi ad ogni imperfezione che compare sulla pellicola perché sai che non potrà fare altro che rovinarsi fino a non essere più riproducibile.
Ricordi? Parlava di un quadro bellissimo e di te che non avresti mai smesso di ammirarlo, di toccarlo con stupore, di baciarlo delicatamente, il più possibile, con la paura di rovinarlo.
Però finisci sempre per ottenere quello che temi, perdi la freddezza e diventi come un elefante in una cristalliera, se solo riuscissi a far capire che agli elefanti piacciono i cristalli.
Solo un’ultima volta ancora, un ultimo sogno, dici che solo quello ti basta per non dimenticarlo più, mentendo a te stesso.

Bad timing

15 luglio 2006

C’era un cimitero bellissimo, il cimitero più bello del mondo, tutto era pace e riempivo i miei polmoni di quell’aria immobile. Sembrava poter essere per sempre, desideravo lo fosse, invidiavo chi aveva avuto l’onore di poter riposare in quel posto. Ma quell’immenso silenzio in cui stavo sprofondando venne spezzato da un maledetto tumore della vita moderna, il telefono squillava.
Lo tirai fuori dalla tasca, sottraendolo al groviglio di chiavi, monetine, filtri e cartine, lessi il nome sul display. Sette lettere che conoscevo benissimo, che tutt’altro effetto ottenevano qualche anno fa. Risposi. Non riconoscevo la tua voce, forse volevo solo non riconoscerla, perchè mi faceva paura, come sempre, da quando non ci appartenevamo più. Tu mi parlavi e io fingevo cortesia, quasi piacere, in realtà stavo provando un assurdo terrore. Quanto fa paura confrontarsi con le proprie debolezze, quando non si è riusciti a sconfiggerle ma solo ad allontanarle. Perchè hai deciso di farmi del male? Era davvero necessario? Ci eravamo dati una tregua eterna, perchè non l’hai rispettata?
Così farfugliando mi ritrovai ad accettare di vederti, perchè eri vicina, perchè no? Incrociare di nuovo i tuoi occhi è stato ancora più difficile che premere quel bottone sul telefono. I tuoi occhi, sempre così accesi anche se meno luminosi. Sono passati degli anni e qualcosa è morto anche dentro di te e io mi sento terribilmente colpevole. Mi sorridevi e mi parlavi di come la tua vita avesse preso la giusta direzione, ma non riuscivo ad essere felice per te, perchè non credevo ad una sola parola di quello che dicevi. Non credevo alla tua felicità, al tuo amore, alla tua soddisfazione, però mi piacevi. Non sapevo cosa potesse significare, se davvero ci fosse attrazione o semplicemente era il gusto di riassaporare il tempo che inesorabilmente era passato.
Scrutavo ogni centimetro della tua pelle, delle tue cosce, per vedere cosa restava di quello che avevo lasciato. Provavo a riformare nella mia mente la tua sagoma e verificavo se fosse ancora la stessa e ogni volta che trovavo una conferma ai miei amarissimi ricordi sentivo il mio cuore cadere un po’ più giu, verso lo stomaco.
Poi siamo finiti avvinti, prima in un abbraccio, poi in un bacio, poi nel trionfo del desiderio e dell’ingordigia. Divoravamo ogni centimetro della nostra pelle con rabbia, come se fosse l’ultima volta, in effetti lo era e lo sapevamo.
Ho finito per inventarti una scusa, dovevo andare, scappare il più velocemente possibile. Ho sentito la necessità di bere, fin quando il mio corpo lo avrebbe retto. Sbandando ho camminato, preso botte, mi sono addormentato.
Il cimitero più bello del mondo era ancora lì, forse l’invidia che provavo per i suoi ospiti mi aveva spinto a condividere un po’ di quella pace, era mattina, erano passate alcune ore.
La mia bocca esalava sgradevoli aromi tannici, nella mia testa girava come un ricordo, qualcosa che sembrava essere stato avvolto dalla nebbia insieme a quelle lapidi girigie che mi facevano compagnia. Mi sentivo felice ma non riuscivo a capirne il motivo.

Il tredici luglio

17 gennaio 2006

Boom, un botto, poi un altro, ancora altri due, mattina di luglio, la festa che si annunciava, con un mese di ritardo, per i turisti mi spiegavano.
Mi rigiravo ancora nel letto, pigro per recuperare, riprendermi le ore perse durante l’inverno, stagione troppo dura per un povero bimbetto, troppo indaffarato tra sussidiario e libro di matematica. E nel sogno si insinuava la banda, in festa, in giro, così squinternata, ma ero troppo piccolo per sentirlo, era solo gioia. Senti la cassa, senti le trombe, i piatti creavano mille piccole esplosioni, i contrabbassi disponevano con ordine melodie e ritmi. Via per le strade sempre troppo strette di un paese con poco meno di duemila anime, a sciorinare sempre le solite note, le note della festa, la festa del santo più rispettato, quello più aspettato, Sant’Antonio.
E ormai il sonno era svanito e s’era portato via con sè i sogni, toccava alzarsi, lasciarsi baciare gli occhi ancora appiccicosi dal sole fresco di un’estate in collina. La fila al lato, il pantaloncino all’inglese, tanto odiato, con la magliettina da dentro, tutto imbellettato per la piazza. La telefonata all’amichetto, l’appuntamento alla curva pronti a riscattare la parte di gioia che ci spettava di diritto in quanto bambini.
C’erano le signore lucidate che spingevano i loro passeggini, gli uomini tutti col vestito buono, che a ripensarci ora mi fanno tanta tenerezza, per l’impaccio che malcelavano sotto giacche abbinate sempre troppo male alle camicie, vanità di paese, vanità semplice.
Hai visto quanto è bona Paola? Con quanto imbarazzo pronunciavamo quell’apprezzamento, la maledetta turbava i nostri pensieri con le sue curve di adolescente cresciuta in fretta, suggeriva fantasie che nemmeno conoscevamo fino in fondo, quanto siamo cambiati, quanto abbiamo affinato il nostro palato, senza nemmeno accorgercene.
I marocchini, che poi ho scoperto essere semplicemente sinonimo di extracomunitari, iniziavano a preparare le bancarelle caricandole dei nostri desideri per la sera, i due signori della roullette lucidavano i cavalli e stringevano i fiocchi al loro collo, pronti per essere lanciati poi nel circuito vizioso tanto caro ad alcuni miei zii, le bamboline premio erano lì dietro pronte, facevano la guardia.
Poi si tornava a casa, il pranzo con i parenti, tutti insieme, tutti ubriachi, io provavo a entrare con la mia fantasia nei loro discorsi così difficili, ma mi scocciavo presto e abbandonavo il convivio sempre prima della fine, per la disperazione di mia madre che si chiedeva come mai non le riuscisse di educare un figlio.
Il pomeriggio non aveva senso, il pomeriggio era solo il traghetto verso l’euforia più vera, la sera di festa.
Tutto cominciava con la processione, la più esotica e inutile che io abbia mai visto, tutti, uomini, donne, anziani alle finestre, proprio tutti avevano una specie di fumogeno, biancale lo chiamavano, e le statue, non ho mai capito perchè Sant’Antonio fosse accompagnato da San Filippo e San Francesco, dovevano affrontare il percorso dalla chiesa alla piazza, la Villa Comunale, in un tunnel di fumo impossibile da sopportare anche per due polmoni vergini come erano i miei all’epoca, roba da perderci la voce per almeno un’ora, cosa che non mancava di procurare orgoglio, senti qua, non ho più voce, tosse. Il trionfo finale erano i fuochi d’artifico che per problemi di budget erano semplici e bianchi all’ora del tramonto, niente a che vedere con le feste dei paesi vicini.
La notte era assordante, con i suoi gruppi elettrogeni che servivano a dare vita alle preziosissime esposizioni di cianfrusaglie, le radio a pile che pubblicizzavano l’ultima compilation estiva ricopiata su cassetta, così ingenua e così pura da non suggerire neanche la sua illegalità, altri tempi.
Era il caos, le macchine di passaggio sconcertate provavano a farsi largo nel mezzo di un intero paese riverso per strada, due fiumi opposti si incrociavano continuamente, senza nessuna direzione eravamo noi bambini, schegge impazzite, drogate da tutto quel luccichio esagerato e quasi spontaneo.
Ogni festa aveva il suo gioco, c’è stata quella delle fionde, quella delle pistole ad acqua da riempire nella fontana della piazza, quella delle partite di pallone in mezzo alla strada, per arrivare, crescendo a quella dei motorini, tutti nuovi, tutti da mostrare e tirare.
Il momento più nobile era il gran concerto della banda, con tutti gli uomini adulti in prima fila a compiacersi per qualche pezzo in particolare o per il culo della maestra, che non so perchè, ma era sempre una donna, una bella donna a sentire mio padre. Il vero tripudio arrivava al Bolero di Ravel, tutti aspettavano solo quello e quando era passato il bis era da tradizione.
Piano piano ogni festa così si avviava stanca alla conclusione, tirandosi dietro le risate e i rumori, lasciandoci in cambio i ricordi e la voglia di un anno da far passare veloce.
Boom, un tonfo si è infilato nel mio sonno fingendosi uno sparo della festa, portandomi in regalo la possibilità di rituffarmi in una giornata di tanto tempo fa, prendendosi in cambio il faro posteriore della mia macchina parcheggiata davanti casa.

In questa città che quando piove città non è più ti ho vista e ti ho chiesto una sigaretta. E perchè avevo bisogno davvero di fumare, che poi ho scelto te, quello è stato si calcolato, ma davvero, le mie erano finite. In cambio hai voluto che ti accompagnassi in albergo, perchè davvero avevi perso il tuo gruppo, tu che eri in gita, la gita, da quanto tempo non sentivo questa parola, che poi hai scelto me, ho pensato che fosse stato calcolato.
Mi guardavano con sospetto, ti guardavo con voglia, mi hai tirato nella tua stanza, non ho fatto resistenza, è stato come tornare indietro di molti anni. Mi sono sentito come il ragazzino che ingenuamente punta al massimo, ci gioca, magari ci spera, prima o poi qualcosa succede. Mi hai dato il tuo numero, mi hai detto “a stasera”.
Ho dovuto rimbalzare su e giu come una molla per trovare finte coincidenze da esibire di fronte ai miei obblighi di coppia, per riuscire a liberare una notte, che forse aspettavo da dieci anni. Ho ricomprato le mie sigarette, quattordici euro, non sarebbero finite. Ho riempito l’ultima ora di attesa con visite che non avrei mai immaginato di desiderare, mentre dal cielo non aveva mai smesso di venir giu acqua.
E poi ho aspettato, sempre di più, non abbastanza, forse, sono andato via.
Sono finito dentro quel bar, provando a ricordarti, sapendo che non ti avrei neanche più sognata, assalito dal dubbio, chiedendomi se la mia attesa fosse stata troppo breve o troppo inutile, vai che tanto il risultato è lo stesso.
E mi è rimasto il tuo numero, quelle poche cifre, coordinate di te, che non ho mai avuto il coraggio di mettere in fila, per paura che fossero sbagliate, per paura di non poterti toccare mai più.

Aggiornamenti dalle quattro pareti che contengono spruzzi di vitalità inaspettati misti a tossicologia varia. Si procede con alimentazione nevrotica, stomaci chiusi pronti a schiudersi per accogliere ogni forma di materiale commestibile, in ordine rigorosamente casuale. Diarree da stato psichico alterato schizzano all’improvviso, nel rispetto della più tradizionale conformazione del fenomeno. I farmaci stessi vengono assunti senza una precisa idea di fondo, si cerca di combattere gli stati di depressione con botte di vitamina C, un misto di pastiglie effervescenti e clementine, che si alternano agli stati di torpore tanto inaspettati quanto violenti. La possibilità di suicidi di massa non è esclusa, in tal caso non mancheremo di motivare il tutto con ideologie religiose di una qualche frangia estremista. Qui dentro è una gabbia di pazzi, fuori non ricordo come è, ma non mi sembrava comunque tanto meglio.

Una tenia

27 ottobre 2005

Le stesse cose di ieri possono spaventarmi mortalmente, le stesse cose che ieri avrei amato.
Mi copro gli occhi, li lascio incollati al risveglio per non vedere. Sbatto contro ogni spigolo, tra una sigaretta e un caffè, pur di non farmi cogliere dalla luce della verità. Non voglio vederla, ho paura di bruciarmi, la verità può essere come un rasoio ben affilato, mi apre uno squarcio profondo senza che il sangue cominci a scorrere.
Sono i fantasmi che popolano il nostro mondo, che mi tengono prigioniero, sono tutte le cose che ho ucciso contro la loro volontà a lamentarsi e scalciare per tornare in vita, da questa parte della vita.
Tanti piccoli aborti che chiedono giustizia, un solo spietato boia che si nasconde dietro la scusa che in fondo faceva solo il suo lavoro, dimenticando che avrebbe potuto anche fare il fiorista.
Quando mi trovano inerme e indifeso iniziano a saltellare sulla mia pancia e non ho altra via di fuga che il risveglio, ma i più bravi riescono a sopravvivere, almeno questa volta, almeno da morti.
Quando tutto questo finirà sarà comunque tardi, sarò comunque diverso. Io li avrò annullati, il mio corpo sembrerà leggero, ma sotto la pelle le cicatrici non si sono chiuse e non lo faranno.
Un bel vestito nuovo, acqua di colonia e brillantina, mentre sotto, dentro, tutto marcisce, ogni anno di più.

Avete mai provato a fare il vuoto intorno a voi? Provare a non sentire niente, a non vedere niente, a galleggiare nel nulla. Annullare tutti i sensi e se possibile anche il cervello per capire l’essenza vera della vita, la morte.
Bisogna conoscerla il più possibile questa gentile donna, che paziente aspetta, quanto più quanto meno, seduta con una rivista al nostro fianco, aspetta di fare il proprio lavoro, aspetta di prenderci per mano e condurci dall’altro lato. Bisogna prenderci confidenza perchè non facciamo altro che morire, ogni giorno, sempre un po’ di più.
E mentre provo questa difficile alienazione penso all’immortalità, se esiste, in che forma esiste.
Solo l’arte può consegnarla, l’arte di un colore messo all’ultimo momento a completare l’ultimo ritratto di Jeanne fatto da Amedeo Modigliani, Modì, uno che l’immortalità l’aveva già nel nome, l’arte di un’inquadratura rivoluzionaria che rende un film di Fellini un capolavoro, l’arte di dieci minuti di palleggiare con un pallone che ha reso un povero bambino di Buenos Aires il poeta assoluto di uno stupido sport chiamato calcio.
E lo cerco questo tocco di immortalità, rendendomi ben conto che è merce sempre più rara. Siamo davvero sicuri che un giorno ricorderemo l’ultimo album dei Franz Ferdinand? O magari il prossimo film di Muccino? Non credo proprio, colpa dei tempi.
Cadranno anche le illusioni di tante giovani menti a cui hanno regalato il sogno di sentirsi scrittori, che imbrattano pagine per fortuna ormai solo virtuali con i loro conati volgari, credendoli lampi di una nuova letteratura, incentivati da ciechi editori che si divertono a far credere loro di essere i nuovi Pavese, Céline o chi altro. Solo perchè costa meno, solo perchè è davvero dura trovare di nuovo un Céline.
Io non ci ho mai creduto, forse solo sperato, per questo cerco il vuoto, per questo imparo a morire, ché tanto resta l’unica certezza fra queste mani sempre meno capaci di stringere i pugni.

Una storia semplice

8 settembre 2005

In realtà non è che ci sia tanto da raccontare, perchè storie così accadono ogni minuto in ogni parte del mondo, forse anche con sviluppi più interessanti. Ma io ho la necessità, fosse anche solo fisiologica, di ricordare. Conosco la mia memoria, non è più quella di un tempo, di quel tempo del quale tutto è fissato. Ora non è così, posso ricordare di dover ricordare, ma sono le emozioni quelle che non riesco a conservare pure e intatte. Per questo scrivo, parole che non devono interessare a nessuno, ma che sono vitali per me.
E quindi, dopo aver pensato a lungo a come romanzare quello che è stato fra noi, mi sono convinto che l’unica cosa che potessi fare era semplicemente raccontare, descrivere.
Di come all’improvviso abbiamo preso a morsi il desiderio, che presto sarebbe diventato passione, per poi trasformarsi in errore e divenire, infine, senso di colpa.
Io ascoltavo della musica dalle mie cuffiette bianche, nel frattempo, completamente estasiato, pensavo a come certi artisti andrebbero spiegati e studiati a scuola. Tu guardavi a terra, dietro lenti scure, persa dietro a chissà quali ragionamenti.
In un attimo è successo tutto, ci siamo guardati, mi hai detto che volevi solo imparare a fischiare meglio, abbiamo ricominciato sempre più voracemente, quasi volessimo ingoiarci, l’uno con l’altro.
Tutto intorno a noi sembrava immobile, per poco, poi le voci, i rumori, hanno ripreso a farsi sentire.
Siamo scappati lontano, con che idee nella testa non lo so. Ma quando siamo rimasti davvero soli siamo tornati, improvvisamente e inspiegabilmente, con i piedi per terra, abbiamo realizzato che era stato solo un sogno.
E questo voglio ricordare, solo questo, senza aggiungere nessuna decorazione, che servirebbe solo a rendere più avvincente questa storia, ma che non mi aiuterebbe certo a tenere di te intatta l’emozione.

Una teoria sui segnali

22 giugno 2005

Uno sforzo durissimo per cercare di associare quelle linee da sogno a qualcosa di reale, per non dimenticare qualcosa che credevo di avere fra le mani.
Tornavo fra le tue braccia, lunghe e sottili, pronte a cingere tutta la mia paura, che non certo andava via in questo modo. Ma almeno a modo mio mi sentivo felice, l’insicurezza che derivava dallo stare nello stesso letto con te, senza per questo essere autorizzato ad avanzare la mia linea di un solo centimetro, mi rendeva euforico.
Poi mi hai detto alziamoci, andiamo fuori, avevi voglia di un gelato, un grosso gelato. Intanto io procedevo a lunghe falcate verso la lobotomia più assoluta, prova ne è il fatto che mentre tu sceglievi i tuoi gusti con affascinante decisione io mi limitavo a prendere un cono nutella e mascarpone, tirando completamente a sorte.
E poi sei andata via, mi hai detto che ci saremmo rivisti, presto, io lì a immaginare. Quello che sarebbe stato, quali erano le tue intenzioni, quali le mie, la voglia di dirti tutto, la paura di non sapere niente di te.
Ho iniziato ad aspettarti troppo presto, convincendomi ancora prima che non saresti tornata, che non avrei avuto mai più l’opportunità di spiegarti quello che stava succedendo. Non sapevo quanto fossero veri quei timori, non sapevo che tutto quello che sarebbe rimasto di te lo avrei dovuto legare a me con un filo fragilissimo, un’associazione di linee immaginarie a contorni reali non per questo meno sbiaditi.
Ho realizzato però che se anche tu fossi tornata non sarebbe cambiato niente, che il gelato si sarebbe comunque sciolto senza che io ne avessi mangiato, che forse sarebbe stato solo più facile ricordare. As usual ritorno, ma quanto lascio dall’altra parte è sempre di più.

Fusione

15 giugno 2005

E’ una questione di equilibrio, l’eterna lotta tra chi lo vuole raggiungere e chi lo rifugge con timore.
Tu ad esempio, mi parlavi sempre del fatto che lo stavi perdendo, avevi paura, volevi provare a riagguantarlo di nuovo, ma non credevo a una parola di quello che dicevi. In realtà stavi morendo dalla curiosità di vedere che c’era da quest’altra parte, giu dalla corda, tra quelli che in equilibrio non hanno mai provato a starci.
Poi il vuoto, quel grande vuoto, passato il quale non c’era più una cosa uguale a come l’avevamo lasciata, ma forse è stato meglio così.
Io ho rinunciato a capirti, ad apprezzarti razionalmente, ho preferito lasciarmi dominare da una sterile passione estetica. Ma ho ricominciato a credere nell’idea, quel sogno meraviglioso che avevo un po’ d’anni fa. Riesco a immaginarti molto bene al mio fianco, ma mi è successo anche con altre persone, ma tu non cederai vero?
Come ti ho spiegato stanotte io credo in un qualcosa di assolutamente platonico da alimentare tutta la vita, poi il reale è un’altra cosa. Non ero in me, diciamo che sentivo la metà di quello che dicevo e capivo ancora meno, i soliti vizi che coltivo per sfuggire agli sguardi curiosi e ai discorsi poco fantasiosi, ma sono sicuro di aver notato una piccola indecisione, come una paura quando mi hai detto “sai, potrebbe essere l’ultima volta che ci vediamo stasera”.
Ti ho risposto acidamente, ma non perchè lo volevo, semplicemente non avevo intenzione di rovinare il mio amore platonico all’ultima occasione utile, sai che forse devi bastarmi per un’altra cinquantina d’anni se tutto va bene?